Un film di Benny Safdie. Con Emily Blunt, Dwayne Johnson, Oleksandr Usyk, Bas Rutten, Paul Lazenby, Whitney Moore, Andre Tricoteux, Jason Tremblay, Paul Chih-Ping Cheng, Yoko Hamamura, Lyndsey Gavin, Jasper Salon. Genere Azione - USA, 2025. Durata 123 minuti circa.Biopic su Mark KerrBiopic sportivo sulla vita di Mark Kerr, sollevatore di pesi, campione di MMA e wrestler.di a cura della redazione
Tre anni nella vita e nella carriera di Mark Kerr, che è stato un pioniere nella disciplina delle arti marziali miste a cavallo tra gli Anni Novanta e i duemila. I combattimenti brutali si fanno sentire sul corpo dell'atleta, che sviluppa una dipendenza dagli oppiacei per placare i dolori durante i lunghi tornei in posti come il Brasile o il Giappone. A casa, in Arizona, lo attende la compagna Dawn, con la quale c'è un amore sincero minacciato però da due temperamenti focosi e dalla necessità da parte di Mark di chiudersi in sé stesso per fare al meglio il proprio lavoro. Un sostegno importante gli viene dall'amico e rivale Mark Coleman, tramite il quale Kerr si avvicina all'allora nascente mondo dell'UFC che promette guadagni ancora maggiori. I due si ritroveranno in Giappone a competere insieme per il torneo Pride.
Primo film in solitaria per il regista Benny Safdie, dopo aver costruito assieme al fratello Josh una partnership di successo che li ha portati dal cinema indipendente americano al mainstream di ottimi titoli come Good Time e Diamanti grezzi.
Avendo esplorato anche il mestiere di attore (lo si ricorda proprio in Good Time, oltre che in Licorice Pizza e Oppenheimer), Benny torna alla regia con un biopic-omaggio alla figura di un lottatore americano verso il quale lui e la star Dwayne Johnson, da cui nasce il progetto, provano un affetto evidentemente palpabile: The Smashing Machine è infatti un film sportivo dalla struttura atipica e dal carattere sorprendentemente morbido.
Non proprio scevra dei conflitti tipici del genere - di Kerr vengono mostrati gli alti e bassi con la partner e l'uso di droghe - l'opera ripercorre però un periodo limitato della carriera dell'atleta, pochi anni e qualche torneo, senza enormi variazioni nella sua traiettoria professionale e personale. Al posto dei grandi traguardi e dei sensazionalismi c'è invece un character study animato dalla curiosità. Il Kerr del fu "The Rock" è un contrasto misterioso che la macchina da presa di Safdie non riesce a smettere di decifrare, un ordigno instabile che si teme possa esplodere da un momento all'altro.
L'implicita minacciosità di questa montagna di muscoli viene messa in parallelo con i suoi modi gentili e rispettosi, l'alta intensità testosteronica ed elementare delle interviste pre-torneo disinnescata da una razionalità pacata e autoconsapevole nelle risposte. Del cinema dei Safdie ora "dimezzato" resta la straordinaria capacità di generare un mood, di vivere in quella buffa intersezione tra la narrativa più convenzionale e l'uso di attori e figure inaspettate che aprono le frontiere tra il reale e il grottesco, uno spazio che conduce dritto dalle parti di Harmony Korine.
In questo caso ci sono tanti veri lottatori a provvedere ai ruoli di contorno, e anche uno che si erge a co-protagonista: Ryan Bader nella parte di Mark Coleman, sovversiva e originale rivisitazione di un personaggio già visto, e simbolo dell'approccio empatico che il film adotta sulle cose della vita - la vittoria, la sconfitta, lo stare fianco a fianco con qualcuno.
Sul ring, quell'empatia si trasforma in uno stile di regia misurato, che non cerca di entrare dentro lo scambio violento ma si fa più descrittivo. È negli spogliatoi che ci si può avvicinare maggiormente, ma ancora una volta il punto d'interesse degli autori è concettuale e non animale, intellettuale e non primordiale. In questo è anche un'opera sul linguaggio e sulla mediazione dell'istinto, sugli spazi intimi e il rispetto della professionalità. Vale per la parte sportiva ma anche per quella personale, con il salotto di Mark e Dawn che si fa teatro di ulteriore dibattito.
Kerr è presumibilmente un nome poco familiare al grande pubblico se non ai più fedeli appassionati degli sport da combattimento, ma il regista si rifiuta di accettarlo, cercando invece l'eccezionalità in un personaggio che cerca disperatamente di conformarsi. E se l'impresa eccezionale è essere normale, sotto la superficie di The Smashing Machine si può trovare l'analisi di una mascolinità alla disperata ricerca di una sintesi: iper-consapevole (a volte anche buffamente contemporanea nell'uso del therapy-speak come rifugio emotivo) ma ancora schiava dell'ebbrezza che si prova nel performare la sottomissione dell'altro.
Safdie nasconde tutto ciò in un involucro dall'aspetto conosciuto, quasi scontato, puntando il dito e sfidando lo spettatore a vederci la stessa unicità che sta indicando lui da lontano, come nell'epilogo sornione che chiude il film e che ci ricorda quanto è importante tenere la giusta distanza.