RITROVARSI A TOKYO

Locandina Un film di Guillaume Senez. Con Romain Duris, Judith Chemla, Mei Cirne-Masuki, Tsuyu, Shungiku Uchida, Yumi Narita, Patrick Descamps, Shinnosuke Abe, Morio Agata, Toshihiro Yashiba, Eriko Takeda, Masayuki Shida, Hajime Inoue (III), Tomonori Mizuno, Marika Yamakawa, Ayano, Zenki Aramaki, Clive Davies, Léonidas Arvanitis, Kaori Tokudome, Hiroto Ogi. Genere Drammatico - Francia, Belgio, Giappone, USA, 2024. Durata 98 minuti circa.Un rapporto difficile tra padre e figliaUn film che racconta il Giappone di oggi da un punto di vista inusuale, in cui convivono luci e ombre.di Claudia Catalli


Trama

Jerome, detto Jay, è un tassista francese che vive a Tokyo, ma è soprattutto un padre separato che non vede l'ora di ritrovare sua figlia Lily. In Giappone la legge non prevede l'affido congiunto, così Jay spera almeno di rintracciarla girando con il taxi per tutta la città. Nel frattempo aiuta la sua amica Jessica, che si trova nella sua stessa situazione, a rivedere suo figlio. Nulla è facile come sembra, ai genitori europei la burocrazia nipponica appare come una barriera insormontabile, bisogna ricorrere a metodi più empirici, più umani, solo così l'impossibile "caccia al tesoro" filiale può trasformarsi in una concreta opportunità di incontro tra un genitore disperato e sua figlia.

È un commovente dramma sulla paternità e insieme un'opera di sottile denuncia sulla rigida legge nipponica in tema di affidamento, Ritrovarsi a Tokyo di Guillaume Senez.
Il titolo italiano già svela l'intento del protagonista, interpretato in modo profondamente umano, empatico e convincente dal francese Romain Duris, che a sette anni da Le nostre battaglie torna a farsi dirigere da Senez e per l'occasione ha imparato il giapponese. Ovvero ritrovare sua figlia in una metropoli di milioni di persone, tramite il suo taxi. Il titolo originale insisteva sul senso di questa ricerca, ritrovare "una parte mancante" di sé. Vale la pena dirlo subito, non si tratta del solito film retorico di ricongiungimento padre-figli, ma di un'opera sensibile e struggente su come in certi Paesi, tipo appunto il Giappone, la genitorialità diventi una sfida sempre più ardua e a tratti crudele. Specie se, come in questo caso, non viene legislativamente previsto l'affido congiunto e si favorisce spudoratamente il genitore giapponese, dunque ad un europeo come Jay - e come la sua amica Jessica (l'ottima Judith Chemia) - non resta che occuparsi del mantenimento e sperare di rintracciare una figlia che non riesce a vedere da nove anni e su cui non può vantare nessun diritto, pena punizioni severe tra cui il rimpatrio in terra d'origine. È un tema decisamente inedito, quello di cui sceglie di occuparsi Guillaume Senez, regista e cosceneggiatore di evidente sensibilità, che ci ha abituato a riflessioni sulla paternità ma anche sul senso di appartenenza. Con lo spessore umano che caratterizza le sue opere precedenti, finisce questa volta per firmare un'opera toccante e malinconica, un film sulla resistenza di un uomo, o meglio di un padre-coraggio, in un Paese che gli è ostile in tutto e per tutto nel nome dell'amore più alto, quello verso una figlia pressoché sconosciuta. Tutto raccontato senza retorica, con punte insperate di sottile ironia - la scena in cui si stappa una bottiglia di vino con una scarpa battuta a forza contro un muro resta impressa e strappa un sorriso - in un'atmosfera di continua ricerca che è al contempo disvelamento e ribaltamento di un'immagine stereotipata, quella del Giappone-zen dove tutto funziona a meraviglia.
Senza nulla togliere al fascino di una città come Tokyo che Senez riprende in modo suggestivo, qui emerge prepotentemente l'altra faccia del Giappone, quella nazionalista, severa, rigidamente chiusa in se stessa nel nome di norme autoprotettive che sfiorano il disumano e sanno di xenofobia. Il resto sta tutto nell'interpretazione magistrale di Romain Duris, che ricorda per lo spirito di battaglia sociopolitica contro l'ingiustizia di un intero sistema più grande di lui e, insieme, per la performance squisitamente in sottrazione fatta di sguardi laconici e di silenzi malinconici più che di scene madri, quella pluripremiata di Fernanda Torres in Io sono ancora qui. Che in effetti potrebbe essere un altro titolo perfetto per questo film.