Un film di Reinaldo Marcus Green. Con Will Smith, Saniyya Sidney, Demi Singleton, Aunjanue Ellis, Tony Goldwyn, Jon Bernthal, Andy Bean, Kevin Dunn, Craig Tate, George Ketsios, Liev Schreiber, Jimmy Walker Jr.. Genere Sportivo - USA, 2021. Durata 144 minuti circa.
All'inizio degli anni '90, Richard Williams è un ex atleta che vive a Compton, in California, con la moglie Brandy, le tre figliastre e le sue due figlie naturali: Venus e Serena. Convinto che le sue ragazze diventeranno future campionesse del tennis, le allena tutti i giorni nei campi liberi del loro quartiere malfamato e visita instancabilmente i principali tennis club dello Stato per convincere le alte sfere del tennis a prendere le figlie sotto la loro ala. Insistente e autoritario, Richard guiderà e seguirà passo passo le carriere di Venus e Serena (quest'ultima più giovane di due anni dalla sorella), arrivando a realizzare tutti i suoi sogni, anche a costo di perdere la stima della moglie.
A carriera quasi conclusa, Venus e Serena Williams, le due tenniste più vincenti e probabilmente più forti di sempre, avvallano in qualità di produttrici esecutive una biografia che celebra il loro padre, padrone ed allenatore e ne esalta la figura di sognatore testardo.
Il problema con lo sport al cinema - soprattutto quando e se americano - è il solito: la sua assenza. Anche quando è il fulcro del racconto, il motivo per cui eroi ed eroine si dannano l'anima per raggiungere i loro scopi. In King Richard il centro del discorso è rappresentato più precisamente dal protagonista, il "re" Richard Williams interpretato da Will Smith, idolatrato dalle sue suddite (Venus e Serena) e talvolta inquadrato sotto una luce sinistra giusto per rendere più scolpita e credibile la figura statuaria.
Fa però un certo effetto che nelle due ore e venti di film diretto da Reinaldo Marcus Green e scritto da Zach Baylin, in cui il tennis dei primi anni '90 viene passato in rassegna, con attori e attrici che interpretano Jennifer Capriati, Arantxa Sánchez Vicario, John McEnroe, Pit Sampras e allenatori come Rick Macci e Paul Cohen, non si senta mai parlare di gioco, di stile, di tattiche e colpi, ma semplicemente, come da prassi per l'individualismo americano, di convinzione, volontà, umiltà e voglia di vincere. Manco a dirlo, di tennis giocato se ne vede pochissimo, e di quel poco tutto è ricondotto al singolo gesto, al colpo che delle straordinarie doti di Venus e Serena Williams non dice nulla.
Lo sport - qualsiasi sport - si dimostra quindi impossibile da ricostruire al cinema: perché la sua visione non è cinematografica; perché lo sport può e deve fare a meno del montaggio; perché, ancora, una partita si basa sull'attimo irripetibile e dunque è refrattaria per definizione al racconto e alla fine.
Per tutte queste ragioni - e in definitiva perché elude il centro del proprio discorso, anche ammettendo che non è un film su tennis ma un film su un uomo - King Richard, al di là della veridicità storica di molti suoi passaggi, è un'operazione mistificatoria. Il problema, ancora, è che un film di finzione può infischiarsene dell'accuratezza, ma ha l'obbligo di rendere credibile la costruzione dei suoi personaggi e del suo mondo: e in questo, onestamente, King Richard fallisce in pieno, a meno di non considerare la parola "re" come una lente distorta attraverso cui giudicarlo.
Solo così si potrebbe accettare il ritratto agiografico di un uomo che combatte contro tutti, non solo contro il mondo elitario e bianco dei circoli di tennis, ma anche contro la moglie; la rappresentazione manichea delle avversarie di Venus, sempre bizzose e incredule di fronte alla forza delle futura campionessa; o ancora la tipica struttura drammatica che unisce senza originalità la vita nel ghetto, il razzismo degli ambienti sportivi, il classismo del tennis, lo spirito di rivalsa che anima Richard Williams e alimenta il suo sogno.
La cosa meno accettabile del film è però un'altra ancora, e pure in maniera sorprendente. Ed è la totale assenza, non tanto o non solo del tennis, ma delle sue vere eroine, Venus e Serena, che nonostante la bella prova delle giovani Saniyya Sidney e Demi Singleton (il film si ferma al 1994, alla finale del Bank of the West Classic, quando la quattordicenne Venus perse in finale contro la più esperta Sanchez Vicario) sono surclassate dall'ingombrante presenza del padre e del suo interprete e ridotte a pupazzi in mano a un monarca egocentrico.
Non è dunque il solo Richard, come gli dice la moglie, a soffocare le figlie senza credere alle proprie parole (nei suoi insegnamenti dice che «la creatura più pericolosa di tutta questa Terra è una donna che sa pensare»), ma è il film stesso, incapace di gestire il materiale sportivo e umano che ha tra le mani.
Più che un'occasione persa, King Richard è un'occasione sbagliata, o peggio non richiesta; un film da non fare, perché non abbastanza distaccato dalle cose e dalle persone che racconta e perché inutilmente celebrativo di una vicenda sportiva che ha avuto ragione su tutto, arrivando dai sobborghi neri di una città della California al tetto del mondo.